CARITAS: che cosa si impara dai mediatori culturali

di Silvio Lora Lamia
Al Centro d’Ascolto Caritas è venuto a trovarci uno dei tanti mediatori culturali attivi in città. Persone straniere (ma anche non) che aiutano gli immigrati extra-europei nei colloqui agli sportelli, offrono tutoring educativi, risolvono eventuali difficoltà con le istituzioni e il Terzo settore. Si chiama Abdel Amar, è marocchino, sulla cinquantina, sposato e padre di un bambino che va all’asilo. Umile nella persona ma forte della sua esperienza, Abdel getta dei ponti fra noi italiani e la società del Nord Africa arabo, dove colloca la Tunisia (non ha citato la Libia), l’Algeria e il Marocco, ma non l’Egitto, che a suo modo di vedere fa storia a sé.
È proprio l’Egitto su cui ha voluto insistere, anche perché è il paese che da solo rappresenta il 16 % del totale degli immigrati
extra-europei residenti nell’area metropolitana milanese, totale arrivato quest’anno a mezzo milione di persone. E poi è l’Egitto, ha spiegato Abdel, dove si concentrano e resistono le più forti tradizioni arabo-musulmane, che si cerca di conservare una volta approdati in Europa ma da cui possono nascere problemi di integrazione. Un decimo della popolazione egiziana (dati del CIA World Facebook) è copto – di rito orto- dosso o cattolico -, limitato nei diritti e vittima di cruenti attentati dell’estremismo islamico. Sono circa 8 milioni di cristiani, che vedono in paesi come il nostro certe affinità culturali e di costume, e tendono a comportarsi di conseguenza. Analisi non condivisa del tutto dal nostro ospite quando fa notare che almeno di primo acchito (atteggiamenti, abbigliamento) non si riesce a distinguere un egiziano musulmano da uno cristiano.
Culture diverse ma non per questo inconciliabili
La forte emigrazione arabo-musulmana porta con sé principi millenari: nella famiglia lavora lui, mentre figli e casa sono sulle spalle di lei. Una regola con le sue eccezioni, certo, comunque non tante nelle famiglie egiziane, dove “sono le bambine”, spiega Abdel, “a dare una mano alla mamma, con i maschi incollati al papà sul divano a guardare la partita in televisione”. Tranchant o meno su questo particolare, per il mediatore la ripartizione dei ruoli è un pilastro fondamentale di queste comunità. Con la tavola e la cucina e le sue ricette tradizionali a fare da collante delle famiglie e dei gruppi sociali.
Insomma, onore a mogli e mamme, ostacolate dai mariti se vogliono seguire un corso di italiano (dove potrebbero incontrare altri uomini). Per le donne egiziane con (numerosa) prole, ma pur se in misura minore per quelle marocchine, tunisine ecc., i contatti e confronti quotidiani con società aperte/avanzate come la nostra comportano talora smarrimento, sconforto, sofferenza; Abdel ha insistito su questo. Lo vediamo anche noi al Centro d’Ascolto, dove queste donne faticano ad aprirsi, confidarsi, o tout court si negano al dialogo. La differenza di cultura le mette sulla difensiva. Non rimane loro che sorreggersi a vicenda, diventando parte di una loro “città delle donne”.
Il mediatore ha proposto al Centro d’ascolto un approccio “in uscita” con gli arabi musulmani, instaurando una migliore, più attenta articolazione dei rapporti fra noi e loro. Si deve abbandonare il cliché “ti do il pacco del Banco Alimentare senza aspettarmi una restituzione da parte tua”. Come riuscirci? Per esempio, chiedendo a certe madri di parlarci di uno dei loro assilli: l’assimilazione da parte dei figli, maschi e femmine, di atteggiamenti “troppo moderni”, trasgressivi, lontani dalle tradizioni. Forse è chiedere la Luna. Ma almeno un po’ più di (reciproca) empatia